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La mancanza di grandi imprese è a detta di molti uno dei difetti congeniti del nostro capitalismo. Senza le grandi imprese, questa è la tesi, non è possibile raggiungere le economie di scala che sono alla base della competitività sui mercati internazionali. Vittorio Colao, ex CEO del gruppo Vodafone e special advisor General Atlantic, dice che si tratta di una visione superata. Al tempo della rivoluzione 4.0, la piccola dimensione diventa un vantaggio perché garantisce la flessibilità necessaria per trarre vantaggio dall’innovazione tecnologica. Se alla piccola dimensione si associa anche la qualità del saper fare, come è nel caso del made in Italy, ci sono tutte le condizioni per avere successo a livello internazionale. E cita numerosi casi di piccole aziende italiane che grazie alle tecnologie digitali sono in grado di migliorare il prodotto e il servizio al cliente. Secondo Colao, le economie di scala conteranno sempre meno. Al contrario conterà sempre di più lo human touch e l’autenticità nella produzione dei prodotti. Tutto ciò che è standard, soprattutto nei servizi, sarà automatizzato dall’intelligenza artificiale e dai robot. Si tratta di un discorso sorprendente se pensiamo che a farlo è un manager internazionale della levatura di Colao che opera nel settore high-tech e che da oltre 12 anni lavora stabilmente fuori dall’Italia.
Non si poteva immaginare un’introduzione migliore alla giornata di presentazione della ricerca di Italypost sulle imprese champion organizzata dal Corriere della Sera in Borsa Italiana. La ricerca, è bene ricordarlo, ha messo a fuoco i nuovi protagonisti del made in Italy: 500 imprese tra i 20 e i 120 milioni di euro di fatturato che hanno performance economiche e finanziare che anche le multinazionali si sognano. Sono imprese che hanno mediamente un margine al 20% e che sono in grado di autofinanziare la propria crescita, bankless.
Le parole pronunciate di Colao si ritrovano nei racconti degli imprenditori che sono stati invitati sul palco a presentare la propria azienda. Ci sono almeno tre passaggi nei quali appare evidente l’allineamento tra le champion e il nuovo capitalismo digitale. Il primo: le imprese hanno un’organizzazione industriale ma il cuore rimane artigiano. Hanno la passione e la competenza sul prodotto tipiche dell’artigiano pur adeguandosi a standard internazionali. E’ emblematico il caso di LPM Spa, terzista nel settore metalmeccanico con clienti che vanno da Ducati a Mercedes, che con 40 milioni di euro di fatturato si sente ancora un’impresa artigiana ed è iscritta a CNA. Il secondo: le imprese hanno una grande attenzione verso i propri dipendenti e più in generale verso la qualità del lavoro. Sono tutti convinti che le persone fanno la differenza. Cercano quindi di creare le condizioni perché possano esprimersi nel modo migliore. Ad esempio in FineFoods, specializzata nella produzione di macchinari per l’industria farmaceutica, l’amministratore delegato incontra ogni settimana per 20 minuti un dipendente estratto a sorte. Questi incontri sono fondamentali per capire eventuali problemi e difficoltà e per conoscere nel dettaglio il funzionamento dell’impresa. Il terzo: la disponibilità a innovare. Non hanno paura di usare le nuove tecnologie e di rivisitare i prodotti. Come Unox che ha attrezzato i propri forni industriali con sensoristica avanzata e wifi. In questo modo può conoscere in modo preciso come e quanto il forno industriale è usato e analizzando i dati raccolti può consigliare l’uso più efficiente possibile del prodotto.
Se cercavamo una strada per capire il futuro economico dell’Italia forse l’abbiamo proprio nelle imprese champion.
*L’Economia, 16 marzo 2018