Con cadenza annuale, a Padova nel mese di maggio il Galileo Festival apre una finestra rinascimentale su sconfinati campi culturali. Chi s’immerge in quel paesaggio passa da un campo all’altro. Conoscenza tecno-scientifica e sapere umanistico si presentano insieme e convivono bene. Vi appare la cultura poliedrica di Galileo che espone teorie e punti di vista rivoluzionari, pone domande impertinenti, tiene un atteggiamento protestante non disgiunto dall’avere uno spirito di condivisione. Ora in veste di spettatori, ora nei panni di relatori, i protagonisti del Festival sono invogliati ad impegnarsi nell’esplorazione transdisciplinare, a praticare competenze trasversali, coltivare il pensiero divergente, mettere alla prova le abilità creative e allenarsi alla comunicazione empatica. È così che il Festival emette un incessante brusio di creatività, agitatore di motivazioni e attese poggiate sulla conoscenza al crepuscolo della probabilità e nella notte buia dell’incertezza. Quanti vi partecipano attivamente hanno i connotati dei dadaisti che rigettarono gli standard della società di allora ritenendo superate le norme da essa imposte e le aspettative coltivate. Alla stregua dei cubisti presentano il problema da molteplici prospettive e al pari dei surrealisti rappresentano scene illogiche, strane creature, elementi sorprendenti e giustapposizioni inaspettate.
Soffriamo sia dei «reumatismi della vecchiaia» che dei «dolori crescenti provocati da cambiamenti eccessivamente rapidi», si lamentava l’economista britannico John Maynard Keynes. Di fronte alle vicissitudini della nostra economia scossa dalla rivoluzione digitale, il Galileo Festival fa sue le parole di Keynes contribuendo alla formazione dell’«homo novus» dell’età digitale. A costui non basta imparare a progettare, realizzare o collaborare con gli apparati digitali. Per i caratteri distintivi sopra richiamati, il Festival è una palestra d’apprendimento sul come pensare in modi che sono preclusi a quegli apparati. È così che l’«homo novus», come già accadde al suo antenato dell’età umanistica, assurge a protagonista di un movimento culturale che oggi prende il nome di «imprenditorialismo». È un movimento dalle molteplici facce, volte ad acquisire capacità diverse da quelle esistenti per fare cose nuove. È una stella polare per navigare nel mare della creazione di imprese trasformative, all’incrocio tra scienza e umanesimo. Di fronte all’ignoranza di non conoscere le risposte alle pressanti domande poste dalla rivoluzione digitale, la visione tecno-umanista dell’imprenditorialismo sfida l’esperienza con il pensiero creativo. Scienziati e umanisti sono chiamanti ad operare congiuntamente volendo imprimere una svolta nella società e nell’imprenditoria. Dalla loro alleanza nascono progetti che innescano idee a prima vista improbabili. Quel movimento fa sua l’aristotelica opinione secondo cui è preferibile una probabile impossibilità rispetto a una possibilità poco convincente.
Possiamo allora vedere nel Galileo Festival un luogo mentale, virtuale e fisico che dà l’opportunità di stringere, anche invisibilmente, tante mani, affinché gli esseri umani possano regolare meglio e a vantaggio di tutti i loro rapporti. La mutua cooperazione tra persone fa emergere creazioni, imprevedibili e talvolta improvvisate, che vanno alla scoperta e identificano i bisogni latenti delle persone. Insomma, il Festival è un campo di sperimentazione sul come curare gli interessi personali senza recare danno agli altri e, alla fine, a se stessi, perché i comportamenti puramente egoistici peggiorano nel tempo la salute della comunità di cui si fa parte.
*Corriere del Veneto, 4 maggio 2019