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Copiare la natura per salvare l’ambiente e creare milioni di posti di lavoro è possibile. Basterebbe seguire i principi della Blue Economy di Gunter Pauli, l’imprenditore belga diventato famoso con il successo di Ecover, il primo dei suoi progetti, oggi fra i leader mondiali dei prodotti ecologici per la pulizia della casa. «Lo sviluppo conseguito attraverso processi lineari, in cui le risorse naturali in via di esaurimento vengono estratte per produrre articoli di consumo destinati a finire nelle immondizie, ci ha fatto disimparare i processi circolari della natura, che è capace di riutilizzare sempre tutto con estrema efficienza, senza perdere nulla per strada», spiega Pauli al telefono dal Sudafrica, dove ha fondato Zero Emissions Research and Initiatives, un think tank inserito l’anno scorso nella top ten dei più innovativi dall’università della Pennsylvania, e dove risiede la sua famiglia, con cinque figli e una figlia adottiva.
L’idea
«Il futuro è degli imprenditori capaci di riscoprire la circolarità e di imparare a estrarre valore dai materiali che oggi sono considerati scarti», sostiene Pauli, sempre più impaziente nei confronti dei grandi schemi planetari a difesa dell’ambiente, cui peraltro ha partecipato in prima persona, contribuendo come consulente alla stesura del protocollo di Kyoto, ma che in fin dei conti considera fallimentari. «Abbiamo parlato abbastanza in tutti questi anni, ora bisogna agire», è il mantra ripetuto cento volte da questa sorta di Steve Jobs della sostenibilità impegnato nella promozione di giovani imprenditori ribelli, troppo interessati a collegare i puntini di un percorso sostenibile per badare ai diagrammi di Borsa, che Pauli assiste con il suo network planetario per aiutarli a produrre carta dalle pietre, funghi dai rifiuti organici o alberi da frutta dai pannolini dei bebè. Il suo think tank conta su una rete di 3.000 ricercatori, desiderosi di vedere le proprie innovazioni messe in pratica, e di 850 imprenditori disposti a sporcarsi le mani, all’origine di progetti industriali che hanno mobilitato 4 miliardi di dollari d’investimenti negli ultimi anni. È un grande movimento che avanza sottotraccia, insieme agli altri flussi dell’economia circolare, accompagnati nel mare in tempesta dell’economia mondiale da istituti fratelli come la EllenMacArthur Foundation o il Cradle to Cradle Products Innovation Institute, e da cui ogni tanto emerge un caso di grande successo, come la Novamont di Catia Bastioli, pioniera italiana delle bio-plastiche, di cui Pauli è il presidente.
Le relazioni
A partire dall’affetto per Aurelio Peccei (manager di Fiat, ad di Olivetti e tra i fondatori del Club di Roma), Pauli ha sviluppato una relazione speciale con l’Italia, dove ha collaborato anche con Luigi Bistagnino alla creazione del corso di laurea in Design sistemico del Politecnico di Torino. «L’economia circolare, per mettersi in moto davvero, ha sempre bisogno di un approccio sistemico, che coinvolga molti e crei sviluppo, come nel caso dell’accordo di collaborazione stretto da Novamont con gli agricoltori sardi per la diffusione della coltura del cardo, che ha creato una forte sinergia con la bioraffineria Matrìca a Porto Torres», fa notare Pauli. L’approccio sistemico è alla base degli esempi più riusciti di economia circolare, come la regione belga delle Fiandre, dove la valorizzazione degli scarti è spinta all’estremo, con meno dell’1% dei rifiuti avviato in discarica e il 70% riusato o compostato, anche grazie alla digitalizzazione della società e alla Sharing economy. «Si tratta d’innescare un circolo virtuoso dove gli scarti dell’uno diventano la materia prima per i prodotti dell’altro, gettando ponti per incentivare sinergie tra diversi operatori e creando così enormi risparmi sui costi e sulla bolletta energetica», insiste Pauli. Un modello di economia circolare applicato all’industria europea — sollecitato anche dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 13 settembre — aumenterebbe del 3% all’anno la produttività, con un impatto primario di circa 600 miliardi all’anno sull’economia europea da qui al 2030, in base a uno studio recente del McKinsey Center for Business and Environment. L’impatto complessivo, considerando tutte le esternalità e le efficienze, potrebbe arrivare fino a 1.800 miliardi all’anno rispetto al modello lineare, con un aumento del Pil europeo del 7% rispetto allo scenario di sviluppo attuale e con le relative ricadute positive sull’occupazione. Sembra tutto molto logico, ma la distanza tra il dire e il fare negli ultimi anni è aumentata invece di ridursi. Le forze centrifughe derivano da inerzie culturali, tecnologiche, istituzionali e di mercato. «È vero, la prima Climate Change Conference dell’Onu si è tenuta nel ‘95 e da allora ad oggi nulla è cambiato, anzi, le emissioni continuano a crescere. Ma ci sono molti esempi positivi, dall’Europa al Giappone. Possiamo fare meglio e lo faremo, superando tutte le resistenze», spera Pauli, che negli ultimi anni si è dedicato molto all’educazione dei giovani. Un centinaio delle sue favole circolari, dove racconta con garbo e fantasia le storie imprenditoriali a cui le nuove generazioni dovranno ispirarsi (come Carta di Pietra), sono state adottate dalle scuole cinesi in un programma dei ministeri dell’Ambiente e dell’Istruzione. Tanto che ormai la diffusione dei suoi racconti sta eclissando il suo best seller Blue Economy, che ha venduto 1,2 milioni di copie ed è stato tradotto in 39 lingue. In quel libro, nel 2010 prometteva 100 innovazioni e 100 milioni di posti di lavoro in 10 anni. «Per ora siamo in ritardo. Abbiamo prodotto solo 3 milioni di posti di lavoro», ammette. Ma non disperiamo.
*Corriere della Sera, 30 ottobre 2017